Il contraente debole nel diritto del lavoro relazione dell’avv. Summa – Convegno Cagliari 14 15 dicembre 2018

Il contraente debole nel diritto del lavoro relazione dell’avv. Summa – Convegno Cagliari 14 15 dicembre 2018

Buonasera a tutti

Ringrazio molto gli organizzatori dell’invito a questo convegno, particolarmente gradito perché è per me un onore partecipare a questa giornata  in ricordo dell’avv. Meloni.

Con Alessandro ci ha unito immediatamente l’amicizia comune con il dott. Marco Ulzega e subito dopo il modo di intendere e  svolgere la professione nell’ambito del diritto del lavoro con  la scelta di assistere i lavoratori.

La sintonia è poi stata umana, mi vengono in mente diversi  momenti passati insieme e progetti professionali che purtroppo non hanno potuto avere compimento.

Ho proposto come argomento della mia relazione “il contraente debole e il ruolo del giudice” proprio per onorare Alessandro e il suo ruolo di  avvocato dei lavoratori.

L’argomento  ha origini lontane ed è stato spesso affrontato, ma per quel che mi consta non è mai stato  oggetto di una analisi sistematica da parte della dottrina.

Cercherò di dare alcuni spunti di riflessione senza avere alcuna intenzione di essere esaustivo.

Cosa si intende per contraente debole nell’ambito del diritto del lavoro?

Darò una definizione soltanto perché utile per i  ragionamenti che proverò a declinare,  anche se si tratta certamente di una nozione chiara a tutti.

Il  contratto di lavoro è un contratto sinallagmatico in cui il lavoratore offre la sua prestazione lavorativa in cambio della retribuzione.

La retribuzione costituisce la fonte di sostentamento per il lavoratore, l’art 36 della costituzione sancisce che:

“Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”

Il lavoro è cardine della Costituzione mi riferisco ovviamente all’art 1 , ma anche all’art 35  che è forse una norma un po’ meno letta e  che stabilisce  che:

“La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni. Cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori”

Insomma il lavoro è costituzionalmente tutelato e ha un ruolo centrale nella vita per ogni persona, sia  perché fonte di sostentamento sia in sé, perché elemento fondamentale della esistenza umana.

E’ chiaro quindi che, nell’ambito del rapporto di  lavoro,  il prestatore  si trovi naturalmente, strutturalmente, in una posizione di debolezza nei confronti del datore di lavoro.

Il prestatore se perde il lavoro (soprattutto in una situazione di elevata disoccupazione quale quella che viviamo) perde uno dei capisaldi della esistenza sua e della sua famiglia.

E’ quindi di tutta evidenza che in tale rapporto vi è una posizione di squilibrio e il legislatore e la giurisprudenza ne hanno, per lo meno fino ad una certa fase storica, tenuto debitamente conto.

Infatti il nostro sistema normativo è stato, nella materia del diritto del lavoro, costruito  per cercare di riequilibrate questo oggettivo squilibrio.

Questo era  il diritto del lavoro che ho imparato a conoscere sui banchi universitari e nei primi anni di professione.

Come ben sapete  il sistema è stato stravolto e ciò nonostante nella realtà economica e nel mercato del lavoro la situazione dei lavoratori si è ulteriormente indebolita.

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Il  giudice ha svolto un ruolo rilevantissimo e spesso supplettivo del legislatore nella costruzione di un sistema avente quale riferimento il principio del contraente debole.

Un esempio è l’evoluzione giurisprudenziale in materia di accertamento del lavoro subordinato in cui  la giurisprudenza ha ritenuto che il nomen juris non fosse elemento assorbente per qualificare un contratto di lavoro, ma, e ciò in ragione del principio del contraente debole, quel che deve rilevare è il comportamento posteriore alla conclusione del contratto.

Il giudici hanno infatti ritenuto che  in caso di contrasto fra i dati formali iniziali di individuazione della natura del rapporto e quelli fattuali emergenti dal suo concreto svolgimento, a questi ultimi occorreva e occorre dare prevalenza.

Si è evidenziato infatti che la tutela relativa al lavoro subordinato, per il suo rilievo pubblicistico e costituzionale, non può essere elusa per mezzo di una configurazione pattizia non rispondente alle concrete modalità di esecuzione del rapporto.

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Certamente norma cardine di tutela  e norma di riferimento anche con grande valore simbolico è sempre stato l’art 18 dello statuto dei lavoratori che, come ben noto, nella sua formula originaria prevedeva la reintegra del lavoratori  in TUTTE LE IPOTESI di licenziamento illegittimo nella aziende sopra i 15 dipendenti (60 a livello nazionale)

La norma aveva un carattere vincolante in ordine alle conseguenze ed escludeva ogni discrezionalità per il giudice.

Infatti il giudicante, qualunque fosse stato il profilo di illegittimità, non aveva alcuna discrezionalità e doveva semplicemente disporre la reintegra con la condanna  al versamento delle retribuzioni medio tempore maturate.

Insomma il giudice non aveva alcuna possibilità di valutare la fattispecie in concreto.

Un licenziamento disciplinare inflitto con un mero vizio formale era equiparato a un licenziamento contraddistinto per l’insussistenza del fatto contestato (per usare una terminologia  utilizzata recentemente dal legislatore) , o a un licenziamento ritorsivo.

Insomma il ruolo del giudice in ordine alle conseguenze sanzionatorie nella disciplina del previgente art 18 era del tutto inesistente, siamo nella fase in cui la concezione del contraente debole aveva la sua massima espansione e forse evidenziava qualche debolezza logica.

Interessante, ribadisco sto soltanto fornendo alcuni spunti di riflessione, è la regolamentazione del regime della prescrizione quando era in vigore il vecchio art 18.

Tale disciplina  ha origine giurisprudenziale e trova fondamento nel principio del contraente debole.

Il ragionamento è stato  il seguente:

nelle aziende dotate di tutela reale in cui si applica l’art 18 la prescrizione decorre in costanza del rapporto di lavoro.

Il lavoratore ha la possibilità di far valere le proprie istanze, agire per vedere tutelati i suoi diritti in costanza del rapporto, perché, in caso di atti ritorsivi e in particolare in caso di licenziamento, ha la tutela reintegratoria.

Nelle aziende di piccole dimensioni lo squilibrio tra le due parti è inferiore, come noto non era e non è prevista la tutela reale, ma una tutela risarcitoria peraltro contenuta (massimo 6 mensilità di retribuzione).

Il legislatore ha ritenuto che il piccolo datore di lavoro non poteva sopportare una reintegra e ha stabilito che lo squilibrio economico sociale tra le parti era inferiore.

L’effetto in materia di prescrizione è che la stessa non decorreva in costanza di rapporto, ma dalla sua cessazione, poiché il lavoratore non poteva ottenere la tutela reintegratoria e quindi era in una posizione di rilevante debolezza.

L’effetto paradosso è che un lavoratore di una piccola azienda in ordine ad ogni profilo del rapporto aveva ed ha una maggiore tutela del dipendente di una azienda sopra ai 15 dipendenti.

Peraltro queste regole dovranno, ad opinione di molti essere modificate, con la nuova normativa in materia dei licenziamenti.

E’ da comprendere se le regole della prescrizione come decorrente in costanza di rapporto debba continuare a valere o sia già venuta meno con la legge fornero, quindi dal 2012, allorquando la reintegrazione è stata limitata ma non esclusa.

Ebbene sembra ragionevole ritenere che le regole sono rimaste invariate con la riforma fornero

Si tenga peraltro conto che l’intervento della giurisprudenza ha allargato notevolmente le ipotesi reintegratorie con la vigenza della legge 92/2012 sia in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo e soprattutto in materia di licenziamento per giustificato motivo soggettivo, in ragione dell’interpretazione del concetto di “fatto materiale”

A  mia opinione la regola della decorrenza della prescrizione dalla data della cessazione del rapporto dovrà certamente trovare applicazione per tutte le aziende, indipendentemente dai requisiti dimensionali, con l’ingresso della disciplina  del cosiddetto job act.

E questo anche dopo l’intervento della  corte  costituzionale di settembre perché è comunque  rimasto fermo il principio della tutela risarcitoria/indennitaria ed stato sostanzialmente escluso la tutela reintegratoria, salvo in ipotesi molto limitate (il licenziamento verbale) o che hanno nei fatti grandi difficoltà probatorie, il licenziamento discriminatorio e ritorsivo.

Infatti  casi  in cui nella mia professione ho avuto la possibilità di dare la dimostrazione della ritorsività di un licenziamento erano connessi alla grande ingenuità o arroganza  del datore di lavoro.

Mi è capitato un caso in cui i dirigenti aziendali hanno espressamente dichiarato, riferendosi ad un sindacalista  scomodo, che poi hanno licenziato per presunti motivi disciplinari,  che era meglio lasciarlo a casa.

In un altra causa un datore di lavoro  pubblicamente ha dichiarato di voler mandar via una lavoratrice appena passato l’anno dalla nascita del bimbo perché da mamma non lavorava più bene.

Tornando ai ragionamenti sulla prescrizione  è interessante osservare come la nuova struttura normativa, e proprio in ragione del principio del contraente debole, porterà a tutele permanenti per il prestatore di lavoro e ciò per buona pace della certezza del diritto, elemento individuato come centrale dal legislatore del jobs act.

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Ma andiamo oltre

la  crisi e la prevalenza a livello europeo di schemi liberisti per trovare soluzioni alla stessa, anche nelle posizioni della sinistra italiana hanno cambiato, come si accennava, completamente l’impostazione in materia del diritto del lavoro e questo quanto meno dal 2010

La struttura del nostro sistema normativo, orientato alla tutela del contraente debole, è stato gradulamente  ridimensionata fino a giungere ad un sistema in cui forse lo squilibrio è più nel senso di favorire il datore di lavoro.

La logica che è sta seguita  è quella secondo cui troppe regole e troppi vincoli per il datore di lavoro significava minore disponibilità da parte degli stessi ad assumere e quindi minore occupazione.

Ci si è riferiti al sistema  nord europeo della flexicurity

Il problema che il nuovo sistema in Italia si è contraddistinto per la liberalizzazione  e la limitazione di tutele per il lavoratore, ma ciò senza la security, ovvero che fosse costruito un solido sistema sociale in favore di coloro che fossero rimasti privi di occupazione come previsto  nei sistemi normativi nord europei.

In realtà quel che si è verificato è che è stato stabilizzato il precariato.

 

A fronte ad una ridotta crescita occupazionale, si è costruito un sistema in cui il lavoratore deve lavorare a qualsiasi condizione (sia retributiva, sia in termini di sicurezza) ed a rinunciare anche ai diritti ed alla loro tutela processuale.

 

Tutto questo è avvenuto con una lunga serie di interventi normativi che hanno reso squilibrato la regolamentazione del diritto del lavoro, ma nel senso opposto a quello che ci siamo detti.

 

Innanzitutto è stato introdotto un sistema decadenziale (art 32 l 183/2010) amplissimo i 60/120 giorni per impugnare e i 180 per avviare la causa in moltissimi fattispecie del rapporto di lavoro e delle sue patologie.

 

Parliamo  in particolare oltre al  licenziamento,  dei fenomeni interpositori,  dei contratti a termine, dei trasferimenti, dei trasferimenti di azienda delle collaborazioni eccetra.

 

Tali meccanismi processuali hanno avuto un effetto devastante poiché hanno causato il frequente intervento delle decadenze sia nei casi in cui i rapporti proseguono con più forme contrattuali nel corso del tempo, sia quando un lavoratore, con la legittima speranza di riprendere a lavorare per un datore di lavoro, attende troppo per far valere i suoi diritti.

 

Peraltro è di tutta evidenza che è stato e di molto compresso il ruolo del giudice che si trova spesso, nonostante ha di fronte una chiara situazione di  illegalità, ad avere limitato il suo ruolo che rimane costretto nella  certificazione delle intervenute decadenze.

 

Peraltro un siffatto sistema è del tutto peculiare del diritto del lavoro, per cui siamo al paradosso che il lavoratore ha una serie di preclusioni processuali addirittura impensabili in un altro ambito civilistico.

 

 

E’ stato poi integralmente liberalizzato il contratto a tempo determinato

 

Con il cosidetto decreto dignità si è creato un bizzarro mix tra contratto acausale nella prima fase temporale e il successivo contratto con causale che non gioverà a nessuno perché creerà grande incertezza

 

Ancora è stata prevista la liberalizzazione dei contratti somministrati ed è stata del tutto modificata la disciplina delle mansioni assegnando maggiori poteri al datore di lavoro;  lo stesso è avvenuto in materia di controlli a distanza, ora possibili anche senza accordi sindacali.

 

Sono poi stati elevati i costi economici all’accesso alla giustizia con l’introduzione del contributo unificato per il lavoratore facente parte di  nuclei  familiari che hanno un reddito superiore ai 35.000 euro.

 

Siamo arrivati al paradosso che un lavoratore che deve recuperare il suo tfr deve sostenere un costo  per avviare una procedura monitoria

 

E’ stata inoltre modificato il regime in materia di spese legali con l’eliminazione della regola della compensazione delle spese legali  in caso di soccombenza del lavoratore sostanzialmente di fatto vigente in materia lavoristica.

 

Il nuovo regime è stato mitigato nell’aprile 2018 dalla corte Costituzionale che però ha dichiarato non fondato il particolare profilo di censura che faceva riferimento alla posizione del lavoratore come parte “debole” del rapporto controverso.

 

Il Tribunale di Reggio Emilia, che aveva rimesso la questione al giudice delle leggi, sosteneva che la disposizione sulla compensazione delle  spese non teneva conto della natura del rapporto giuridico dedotto in causa, ossia del rapporto di lavoro subordinato e della condizione soggettiva del lavoratore.

 

Secondo la Corte, però, la qualità di “lavoratore” della parte che agisce (o resiste) nel  giudizio avente ad oggetto diritti ed obblighi nascenti dal rapporto di lavoro, non giustifica, di per sé, una deroga all’obbligo di rifusione delle spese processuali a  carico della parte interamente soccombente, e ciò pur nell’ottica della tendenziale  rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale alla tutela giurisdizionale.

 

La Corte ha però precisato che il giudice deve valutare se disporre la compensazione delle spese di lite, laddove il lavoratore soccombente abbia dovuto promuovere un giudizio senza poter conoscere elementi rilevanti e decisivi nella disponibilità del solo datore di lavoro.

 

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Ritornando a parlare di  licenziamento, come accennavo dopo il previgente art 18, siamo passati  all’articolatissimo e forse troppo complesso sistema introdotta dalla legge fornero.

 

In tale sistema normativo,  senza entrare nel dettaglio della descrizione del novellato art 18,  è stato previsto in caso di licenziamento invalido un range tra le 6 mensilità alla reintegrazione, con una normativa in cui è stato lasciato un ruolo centrale al giudice nel valutare il licenziamento  e nello stabilire le conseguenze derivanti dal licenziamento invalido.

 

Poi dal 2015 è arrivato il contratto a tutele crescenti in cui  giudicante è stato costretto al ruolo di contatore di mensilità in ipotesi di licenziamento invalido, visto che il risarcimento è stato individuato sulla scorta esclusivamente  della anzianità di servizio.

 

Per fortuna è intervenuta la recentissima sentenza 194/18 della Corte Cost. per ricordare che l’eguaglianza, la ragionevolezza, l’adeguatezza, la personalizzazione, devono essere elementi fondanti della materia del licenziamento e che ai giudici deve essere garantito il ruolo di applicare le norme alla fattispecie concreta.

 

In questa situazione, che definirei sconfortante, la Corte Costituzionale spinta da giudici che avevano davvero come faro la Costituzione  ha quindi posto un qualche argine.

 

Il Giudice delle leggi ha dato nuovamente un ruolo al giudice del lavoro che dovrà valutare la legittimità o illegittimità del licenziamento  e stabilire una indennità tenendo conto innanzitutto dell’anzianità di servizio, nonché di altri criteri desumibili in chiave sistematica dalla evoluzione della disciplina dei licenziamenti (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti).

 

Il giudice delle leggi ha infatti  osservato che in una vicenda che coinvolge la persona del lavoratore nel momento traumatico della sua espulsione dal lavoro, la tutela risarcitoria non può essere ancorata all’unico parametro dell’anzianità di servizio.

 

Ha osservato inoltre che non possono che essere molteplici i criteri da offrire alla prudente discrezionale valutazione del giudice chiamato a dirimere la controversia.

 

Tale discrezionalità deve essere esercita, comunque, entro confini tracciati dal legislatore per garantire una calibrata modulazione del risarcimento dovuto, entro una soglia minima e una massima.

 

All’interno di un sistema equilibrato di tutele, bilanciato con i valori dell’impresa, la discrezionalità del giudice risponde, infatti, all’esigenza di personalizzazione del danno subito dal lavoratore, pure essa imposta dal principio di eguaglianza.

 

In altre parole la previsione di una misura risarcitoria uniforme, indipendente dalle peculiarità e dalla diversità delle vicende dei licenziamenti intimati dal datore di lavoro, si traduce in un’indebita omologazione di situazioni che possono essere – e sono diverse.

 

Ha osservato ancora la Corte che la norma non realizzava un equilibrato componimento degli interessi in gioco: la libertà di organizzazione dell’impresa da un lato e la tutela del lavoratore ingiustamente licenziato dall’altro.

 

Con il prevedere una tutela economica che non costituisce un adeguato ristoro del danno prodotto dal licenziamento, né un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare ingiustamente, la disposizione comprimeva l’interesse del lavoratore in misura eccessiva, al punto da risultare incompatibile con il principio di ragionevolezza.

 

La Corte declina  il suo ragionamento richiamando  le norme della carta Costituzionale di  riferimento ovvero in particolare  l’art 1, l’art 3,  l’art 4 e l’art 35 della Costituzione.

 

E’ auspicabile che questa strada sia sempre percorsa dal nostro  legislatore.

 

Grazie