La Corte d’Appello di Roma con sentenza del 27 novembre 2020 ha confermato la sentenza del Tribunale di Roma che aveva ripristinato a tempo indeterminato il rapporto di lavoro intercorso tra una lavoratrice, assistita dallo studio Summa e Associati, con una grande società di un gruppo del settore energia.
La Corte ha considerato accertata la violazione dei limiti percentuali di cui all’art. 20, comma 4, d. lgs. 276/2003, nonché del limite temporale di cui all’art. 5, comma 4 bis, d. lgs. 368/2001 pur ritenendo fondata l’eccezione di decadenza ex art.32 L.183/2010 sollevata dalla società.
In particolare la Corte esamina il profilo relativo alla decadenza ex art.32 cit. che secondo l’appellante impedirebbe di tenere conto del primo contratto a termine al fine del calcolo dei 36 mesi; invero il comma 4 bis dell’art 5 d. lgs 368/2001, così come modificato dall’art.1 della L. 78/2014, prevede che : “4-bis. (….) qualora per effetto di successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti il rapporto di lavoro fra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore abbia complessivamente superato i trentasei mesi comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto e l’altro, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato ai sensi del comma 2; ai fini del suddetto computo del periodo massimo di durata del contratto a tempo determinato, pari a trentasei mesi, si tiene altresì conto dei periodi di missione aventi ad oggetto mansioni equivalenti, svolti fra i medesimi soggetti, ai sensi dell’articolo 20 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni, inerente alla somministrazione di lavoro a tempo determinato”.
Secondo la Corte il chiaro tenore di tale disposizione non prevede alcuna limitazione per la sua applicazione di talché il limite dei 36 mesi non può essere superato a prescindere dalla tipologia contrattuale utilizzata. Ciò posto deve ritenersi che –sebbene sia intervenuta la decadenza rispetto al primo contratto- deve tenersi conto anche di tale contratto ai fini del calcolo dei 36 mesi costituendo esso un dato fattuale e storico rilevante ai fini dell’accertamento della legittimità o meno del termine apposto ai contratti tempestivamente impugnati; ne consegue che a seguito del mancato rispetto del limite temporale dei 36 mesi la conversione del rapporto disposta dal primo giudice risulta legittima. A conferma di quanto sopra è opportuno aggiungere che la conversione del rapporto, nella ipotesi del superamento del limite dei 36 mesi, opera a prescindere dalla legittimità delle causali dei contratti di talché essa opera anche in ipotesi di decadenza dalla impugnazione con riferimento ad un singolo contratto; al riguardo va ricordato pure che in materia di contratti a tempo determinato , ai fini della verifica del rispetto del limite massimo di durata di trentasei mesi, vanno inclusi anche i contratti già conclusi, stipulati prima dell’aggiunta – effettuata dalla l. n. 247 del 2007, art. 1, comma 40, – al testo dell’art. 5 del d.lgs. n. 368 del 2001, del comma 4 bis, in quanto il comma 43 del medesimo art. 1 l. cit. attrae nel conteggio della durata complessiva, al fine della suddetta verifica, anche i contratti a termine eventuale già conclusi (vedi, in fattispecie assimilabile alla presente, Cass. Sez. L. , Ordinanza n.9727 del 19/4/2018 ). L’accertato superamento del limite dei 36 mesi determina l’assorbimento delle censure riguardanti la legittimità dei contratti di somministrazione.
La Corte osserva altresì che sono infondati i motivi di gravame relativi alla violazione del limite percentuale per i contratti di somministrazione da parte dell’appellante ; al riguardo va ricordato anzitutto il condivisibile principio giurisprudenziale in base al quale in tema di clausola di contingentamento dei contratti di lavoro a termine di cui all’art. 23 della legge 28 febbraio 1987, n. 56, l’onere della prova dell’osservanza del rapporto percentuale tra lavoratori stabili e a termine previsto dalla contrattazione collettiva, da verificarsi necessariamente sulla base dell’indicazione del numero dei lavoratori assunti a tempo indeterminato, è a carico del datore di lavoro, sul quale incombe la dimostrazione, in forza dell’art. 3 della legge 18 aprile 1962, n. 230, dell’oggettiva esistenza delle condizioni che giustificano l’apposizione di un termine al contratto di lavoro (vedi, tra le altre, Cass. Sez. L., Sentenza n.4764 del 10/3/2015 ).
In particolare l’art. 16, comma 3, del contratto collettivo aziendale di lavoro per i lavoratori applicato stabilisce espressamente che: “Nelle specifiche fattispecie sotto indicate il ricorso alla somministrazione a tempo determinato è soggetto a limiti quantitativi di utilizzo nella misura del 13% in media annua dei lavoratori occupati a tempo indeterminato nella Società alla data del 31 dicembre dell’anno precedente: a) esecuzione di un’opera o di un servizio che abbia carattere straordinario connesso all’introduzione di innovazioni tecnologiche; b) esecuzione di particolari commesse che, per la specificità del prodotto ovvero delle lavorazioni, richiedano l’impiego di professionalità e specializzazioni divere da quelle normalmente impiegate; c) per coprire posizioni di lavoro non ancora stabilizzate”. I contratti di somministrazione per cui è causa riguardavano “esigenze organizzative e produttive legate all’incremento dei volumi dell’attività generato da mutati condizioni del mercato elettrico, dall’introduzione di nuovi sistemi informativi con rilevanti impatti si processi gestiti da contact center e dall’assetto delle attività svolte dalla società per le altre società del gruppo” e quindi essi sono disciplinati dalla sopra indicata disposizione contrattuale.
Orbene, l’appellante si era limitata a produrre in primo grado le comunicazioni inviate alle OO.SS. in data 27/1/2015 in ordine al rispetto dei limiti percentuali (vedi docc. allegati al n.8 del fascicolo di primo grado di parte appellante). La lavoratrice alla prima udienza del primo grado aveva specificamente contestato la validità di tale documento trattandosi di un atto di parte inidoneo a dimostrare il rispetto del limite percentuale. A quanto sopra deve aggiungersi che nelle predette comunicazioni mancano precisi riferimenti al numero totale dei dipendenti della società datrice di lavoro con la conseguente impossibilità di accertare il rispetto della percentuale prevista dal sopra indicato art.16 del contratto collettivo.