La Corte d’Appello di Roma con Sentenza n. 618/2021 del 17/02/2021 ha confermato la sentenza del Tribunale di Roma che aveva dichiarato illegittimo un licenziamento inflitto nei confronti di un lavoratore assistito dall’avvocato del lavoro Giacomo Summa in un collegio di avvocati giuslavoristi da parte di una multinazionale delle telecomunicazioni.
La Corte ha tra l’altro osservato:
È, in fatto, pacifico che il recesso di cui è causa sia stato intimato all’esito della procedura di licenziamento collettivo avviata con lettera del 14.03.2017, conclusasi in assenza di accordo sindacale, anche davanti agli organi istituzionali.
Nell’ambito di tale procedura l’art. 5 della legge 223/1991 prevede, da un canto, che la individuazione dei lavoratori da collocare in mobilità debba avvenire, in relazione alle esigenze tecnico organizzative e produttive del complesso aziendale, nel rispetto (in mancanza di accordo sindacale) dei seguenti criteri, in concorso tra loro:
a) carichi di famiglia;
b) anzianità;
c) esigenze tecniche produttive edorganizzative.
La norma prevede, pertanto, che la individuazione della platea dei licenziabili debba avvenire nell’ambito dell’intero complesso aziendale, specie nella ipotesi, come quella di cui è causa, di riduzione del personale operata per ragioni strutturali conseguenti alla esigenza di rinnovamento delle strategie aziendali rese necessari per rimanere competitivi sul mercato (cfr. lettera di avvio della procedura).
Tale essendo la (incontestata) motivazione della procedura di mobilità, è di tutta evidenza che la scelta aziendale di limitare la platea dei licenziabili a talune sedi di lavoro è evidentemente violativa della disciplina legale, essendo, al riguardo, la censura della reclamante sulla necessità di operare la scelta “per ragioni geografiche” (id est evitare il trasferimento di personale) priva di qualsiasi ragionevolezza per due ordine di motivi.
Da un canto non spetta all’Azienda decidere se per il dipendente sia preferibile il licenziamento o una modifica della sede di lavoro (cfr. Cass. civ. 17177/2013); dall’altro le molteplici attività di riorganizzazione richiamate nella lettera di avvio della procedura di cui è causa, rendono di fatto impossibile stabilire quali professionalità potessero essere comunque utilizzabili in sede, magari previ percorsi formativi.
Nel caso in esame, poi, alla ritenuta violazione del comma 1 del cit. art. 5 (relativo alla platea dei licenziabili), si accompagna quella della scelta effettiva dei licenziati, siccome – nel caso in esame – la applicazione dei criteri di cui alle lettere a), b) e c) è rimessa alla mera discrezionalità aziendale che, in luogo di privilegiare l’anzianità ed i carichi di famiglia, attribuisce valore dirimente (punti 45) alle esigenze tecnico produttive organizzative, tra l’altro riferite a criteri di fatto incomprensibili nella loro genericità.
Il rilievo che precede dà, altresì conto, della irrilevanza della deduzione difensiva secondo cui il Lavoratore sarebbe rientrato, comunque, nell’ambito dei licenziati, atteso che, come sopra evidenziato, nella procedura de qua i criteri di scelta di cui alla lettera c) non sono “oggettivi” – siccome rimessi, nell’attribuzione del punteggio, alla determinazione aziendale – e in fatto poco comprensibili – in termini di causalità – con le onnicomprensive motivazioni della procedura di mobilità. Né del resto la società reclamante ha allegato quali siano le attività tuttora presenti in azienda, né quali siano le mansioni e le professionalità dei dipendenti non coinvolti nella procedura di licenziamento collettivo, il che rende del tutto irrilevante la prova testimoniale relativa alla mera job role attribuita dal datore di lavoro, senza alcun confronto con le altre job role presenti in azienda ed in difetto di allegazioni circa le differenze, sostanziali o meramente marginali (sempreché esistenti), tra le professionalità richieste dalle varie posizioni aziendali.
Pertanto perfettamente legittima è la ritenuta inammissibilità, da parte del giudice di prime cure, della prova per testi articolata sul punto dalla appellante.
I rilievi che precedono inducono, all’evidenza, a ritenere la illegittimità del recesso non già per un vizio procedurale ma per la evidente violazione del comma 5 della legge 223/1991, normativamente sanzionato ai sensi del comma 3 del cit. articolo (cosi come modificato dall’art. 1 comma 46 della legge 92/2012) con la disciplina di cui al novellato art. 18 comma 4 (cfr. in fattispecie analoga Cass. civ. 18847/2016).
La ritenuta illegittimità del recesso per violazione dei criteri di scelta dà conto della necessità di esaminare la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla reclamante principale.
La questione – basata sulla ritenuta violazione dell’art. 3 della Costituzione della norma di cui è causa, nella parte in cui precede una tutela reintegratoria per violazione dei criteri di scelta, rispetto al regime sanzionatorio previsto nella ipotesi di licenziamenti plurimi per giustificato motivo oggettivo – è manifestamente infondata.
Invero, dopo l’entrata in vigore della Legge 223/1991, il licenziamento collettivo costituisce un istituto autonomo, che si distingue radicalmente dal licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, essendo caratterizzato in base alle dimensioni occupazionali dell’impresa (più di quindici dipendenti), al numero dei licenziamenti (almeno 5), all’arco temporale (120 giorni) entro cui sono effettuati i licenziamenti ed essendo strettamente collegato al controllo preventivo, sindacale e pubblico, dell’operazione imprenditoriale di ridimensionamento della struttura aziendale.
Ne consegue che, essendo il licenziamento collettivo sottoposto a presupposti del tutto diversi da quelli propri del licenziamento individuale, non è ammissibile l’ipotesi di una “conversione” del licenziamento collettivo in licenziamento individuale (vedi, tra le numerose decisioni, Cass. 23 marzo 2004, n. 5794).
La diversità tra i due istituti è stata, anche da ultimo, confermata dalla Cassazione nella ordinanza n. 30550/2018 che, resa in tema di licenziamento collettivo, ha ben evidenziato la differenza tra quest’ultimo ed il licenziamento (anche plurimo) per giustificato motivo oggettivo, testualmente evidenziando che “ in materia di licenziamenti collettivi per riduzione di personale, la l. n. 223 del 1991, nel prevedere agli artt. 4 e 5 la puntuale, completa e cadenzata procedimentalizzazione del provvedimento datoriale di messa in mobilità, ha introdotto un significativo elemento innovativo consistente nel passaggio dal controllo giurisdizionale, esercitato “ex post” nel precedente assetto ordinamentale, ad un controllo dell’iniziativa imprenditoriale, concernente il ridimensionamento dell’impresa, devoluto “ex ante” alle organizzazioni sindacali, destinatarie di incisivi poteri di informazione e consultazione secondo una metodica già collaudata in materia di trasferimenti di azienda. Sicché, i residui spazi di controllo devoluti al giudice in sede contenziosa non riguardano più gli specifici motivi della riduzione del personale, ma la correttezza procedurale dell’operazione (ivi compresa la sussistenza dell’imprescindibile nesso causale tra progettato ridimensionamento e singoli provvedimenti di recesso), con la conseguenza che non possono trovare ingresso in sede giudiziaria tutte quelle censure con le quali, senza contestare specifiche violazioni delle prescrizioni dettate dai citati artt. 4 e 5, né fornire la prova di maliziose elusioni dei poteri di controllo delle organizzazioni sindacali e delle procedure di mobilità al fine di operare discriminazioni tra i lavoratori, si finisce per investire l’autorità giudiziaria di un’indagine sulla presenza di “effettive” esigenze di riduzione o trasformazione dell’attività produttiva.
Detto in breve la procedimentalizzazione del licenziamento collettivo – con i limitati poteri giudiziari sulle cause poste a fondamento del recesso – caratterizza l’istituto in oggetto e, di conseguenza, ben può giustificare la differenza con la disciplina del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Comunque, la tutela non è solo risarcitoria, essendo quest’ultima, nel regime dettato dalla legge 92/2012, ancora residuale rispetto al regime reintegratorio previsto per la fattispecie di manifesta insussistenza del fatto.
Laddove priva di fondamento è l’argomentazione della reclamante principale circa la residualità della tutela reintegratoria rispetto a quella indennitaria nel regime dettato dalla legge 92/2012, essendo la seconda riservata ai licenziamenti affetti da violazioni formali o ai casi di disciplinari di minore gravità o, nel caso di giustificato motivo oggettivo, per fattispecie residuali, affatto tipizzate né dal legislatore né dalla giurisprudenza.
Né rilevanza alcuna, al fine che ci occupa, può avere la disciplina dettata dal D.lgs 23/2015, siccome non temporalmente applicabile alla fattispecie di cui è causa, e che, la stessa scrutinata dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 194/2018, è stata ritenuta legittimo nella diversificazione dei trattamenti sanzionatori rispetto alla legge 92/2012, e “sanzionata” solo per la rigidità dei criteri di determinazione del quantum nei casi di declaratoria di illegittimità del licenziamento (al di fuori delle limitate ipotesi di “conservata” tutela reintegratoria, per le ipotesi di cui all’art. 2 del cit. D.lgs.).